Eccoci con il primo, vero appuntamento con la mia analisi storica del genere shonen… se vi siete persi la mia lunga introduzione eccovela qui, da adesso in poi il mio modo di procedere dovrebbe essere vagamente più spedito. La volta scorsa chiusi anticipando che avrei cominciato a parlare di Wingman di Masakazu Katsura, iniziato nel 1983, e immagino di dover giustificare questa mia scelta, visti anche i prossimi due titoli sulla scaletta. Questa scelta dipende soprattutto dal fatto che al suo debutto, avvenuto oltre trent’anni fa, i lettori giapponesi guardavano a quest’autore come il più promettente tra quelli che lavoravano per la Shueisha. Scelte personali, dinamiche editoriali e tante altre cose hanno deluso in parte queste aspettative ma nessuno riuscirà mai a togliere a Masakazu Katsura alcuni dei suoi meriti.
Cresciuto a pane e fumetti, la sua carriera ebbe inizio con la partecipazione al Premio Culturale Osamu Tezuka, concorso che funge soprattutto da trampolino di lancio per nuovi autori poichè i lavori migliori vengono premiati con un lauto premio in denaro (il primo classificato vince all’incirca 15mila euro) e la pubblicazione su Weekly Shonen Jump. E quando, nel 1980, Katsura arrivò secondo a questo concorso aveva solamente 18 anni, mentre la prima serializzazione arrivò nel 1983 proprio con Wingman, all’età di 21 anni: c’era quasi la sensazione che si stesse assistendo alla nascita di un vero e proprio genio (attenzione: anche Tetsuo Hara alla sua prima serializzazione, che non fu un ben accolta, aveva circa 21 anni; Eiichiro Oda all’inizio di One Piece ne aveva 22). Tutto questo acquista ulteriore significato considerando il fatto che il successo di Wingman era particolarmente inatteso.
Wingman contiene in forma ancora embrionale quelle che, una volta maturate, saranno le caratteristiche dominanti di quest’autore, e precisamente tre: la sua passione per le storie a tema super-eroistico, un triangolo sentimentale da cui sembra impossibile uscire e la timida presenza di elementi fanservice. Anche il protagonista è perfetto, privo di caratteristiche troppo particolari, ma contraddistinto dalla passione per i super-eroi del filone Kamen Rider, che sogna a sua volta di diventarne uno, e per fare questo è arrivato a cucirsi un costume, ma ovviamente nessuno lo prende sul serio. Le sue origini come super-eroe non tarderanno comunque ad arrivare: quando salverà una giovane ragazza proveniente da un’altra dimensione, in possesso di un particolare libro (il Dream Note) dotato del potere di realizzare tutto ciò che vi viene scritto sopra, il suo destino verrà segnato. Ed è così che, mentre la giovane Yume (“sogno“) Aoi ancora non aveva ripreso conoscenza, Kenta disegna sul libro il costume di Wingman e la parola di comando per trasformarsi, condannando se stesso ad avere un ruolo nella lotta per la liberazione del regno di Botorem come paladino della giustizia. Kenta rappresenta il protagonista perfetto, dicevo, dotato di una forza di volontà pari solo alla sua indecisione in questioni meramente sentimentali (sempre in bilico tra Aoi e Miku), moralmente corretto e mai tentato dai poteri del Dream Note, di cui abusa rimanendo sempre legato a una sorta di codice morale dell’eroe per cui, quando va a crearsi una nuova arma, imposta regole tanto più assurde quanto più potenti e devastanti sono i suoi effetti: e dire che probabilmente gli basterebbe scrivere “ho vinto“. Fatto sta che Wingman piace, e nel 1984 gli viene dedicata una serie animata, ma Katsura mette la parola fine alle avventure di Kenta già nel 1985, dopo 13 volumi: non mi risulta che vi fossero stati cali di gradimento della serie, semplicemente l’autore era arrivato a conclusione. Quest’autore si sa, è stato sempre di poche parole e i suoi manga non sono mai stati lunghissimi, fatta eccezione forse per Zetman, opera attualmente in corso ma a uscite irregolari. Il punto è che Katsura a un certo punto sembra essere uscito dall’ambiente shonen, se volete la mia opinione è fuggito a gambe levate: non dopo aver prodotto svariati manga brevi e due dei lavori per cui probabilmente non verrà mai dimenticato, Video Girl Ai e Dna2 (mentre I”s sono da sempre tentato di farlo volare dalla finestra).
Perchè sostengo che sia fuggito a gambe levate? Non prenderei alla lettera questa espressione ma darei un’occhiata all’attuale condizione di Jump in fatto di fanservice e dinamiche sentimentali nei vari shonen… io preferisco distogliere lo sguardo. Non è che ci sia una politica contro il fanservice in questa casa editrice (d’altronde la Shueisha pubblica To Love-ru Darkness), ma in Jump questi due elementi sono stati negli anni sempre più relegati in un angolo e trascurati, al punto tale che alcuni autori non si danno pena di inserire elementi del genere. Il problema è che, godendo Jump di maggiore visibilità, è parso a molti lettori stranieri che questa politica non-ecchi fosse la norma, quando è solo una delle tante filosofie con cui si può venire in contatto. Rispetto a titoli di altre case, in cui la dinamica sentimentale, e la forza dell’amore sono strumenti narrativi comunemente utilizzati, in molti manga della Shueisha, e soprattutto quelli di Jump, ci si imbatte in alcuni protagonisti che sono dei veri e propri disabili emotivi, che non sono fermi al problema della scelta (tipico dilemma dello shonen romantico) bensì non si pongono neppure il problema. E penso Katsura non sia riuscito a trovare una sua collocazione in questo ambiente, prendendo una svolta che lo ha portato a occuparsi soprattutto di illustrazioni. Comunque, di tanto in tanto, gli elementi sentimentali compaiono nei shonen action, ma è una presenza dal sapore incompleto. Ne riparleremo per bene quando sarà il turno di Dragon Ball.
Facciamo un giochino, che cosa vi viene in mente se metto in un cesto shonen, anni ’80 e sentimenti? Esatto, Hokuto no Ken, e non credo di dovervi sintetizzare la trama.
Deluso dalla sua prima serie, un manga sul motocross, Tetsuo Hara decise di lanciarsi in un progetto abbastanza strambo: lavorando insieme a un Buronson in veste di sceneggiatore avrebbe finito per pubblicare uno dei manga più conosciuti di sempre. Hokuto no Ken ancora oggi riscuote un enorme successo (anche se i suoi fan cominciano ad essere un po’ attempati) e rimane una delle opere di riferimento principali per coloro che vogliono fare manga, più che altro per come non devono lavorare. Perchè Hokuto no Ken (anche Wingman), è figlio soprattutto di un’epoca, di una mentalità e passione condivisa, e per rendersene conto è sufficiente analizzare quell’immensa macedonia perfettamente organizzata che è stato il lavoro di Buronson. Ci sono le arti marziali, le citazioni ai filmacci action che stavano godendo del loro momento migliore, ci sono sentimenti, valori quali coraggio, giustizia, amicizia, e ci sono tanti combattimenti mai edulcorati; in Hokuto no Ken i personaggi muoiono, a decine, ed è una cosa che nello shonen non si fa più. O quasi. Ce n’è abbastanza, come alcuni di voi già sapranno, per ammorbidire un nostalgico e lasciarlo ancorato e urlante sulle sue posizioni, probabilmente ferito dal fatto che in ambito di metalinguaggio shonen Hokuto no Ken rappresenta per certi versi un filone sterile (ma qualcuno l’eredità l’ha accolta).
Il successo del manga è innegabile, e sufficiente per ignorare le lamentele di coloro che hanno sempre da lamentarsi: alcuni lettori giapponesi criticarono aspramente Hokuto no Ken per la sua violenza grafica, un po’ come è successo in tutte le nazioni dove è stato trasmesso, a prova del fatto che certi prodotti vengono considerati per bambini/adolescenti anche in Giappone (semplicemente, a differenza di una mentalità meno dominante rispetto al secolo scorso in Occidente, i giapponesi non considerano animazione e fumetto una passione solo per ragazzi), ignorando un po’ quello che era il desiderio degli autori di raffigurare questa violenza in modo satirico, quasi umoristico, caratterizzandolo con l’invenzione di onomatopee e soluzioni grafiche. Fatto sta che, per certi versi, la Shueisha non ha dimenticato le critiche rivolte da una parte del pubblico, e sebbene abbia permesso al duo Hara/Buronson di dire e fare quasi tutto quello che gli veniva in mente fino al 1988, da quel momento cominciò ad avere particolare cura della salute dei personaggi pubblicati sulle sue riviste. Questo non gli ha impedito di ricevere critiche di altro genere (esistono persone che devono semplicemente opporsi, eterni bastian contrari; la motivazione non è mai troppo rilevante) ma ha rappresentato indubbiamente il bivio per eccellenza nella costruzione del metalinguaggio shonen sulla rivista Jump. Eppure Hokuto no Ken vuole essere uno di quei manga che ci ricorda che i ragazzini non sono degli sprovveduti, e che affrontate in un certo modo tutte le tematiche possono essere inserite in un manga, tutta sta, sostanzialmente, in mano a quella che è la sensibilità interiore dell’autore di sublimare il suo messaggio e rendersi comprensibile a un lettore più giovane. E la morte, in Hokuto no Ken, svolge un ruolo talmente sublime da poter essere chiaramente identificabile come uno dei personaggi della serie, che cammina sempre di fianco al protagonista, mai abbandonandolo.
In Hokuto no Ken la gente muore, dicevo, vengono risparmiati solo bambini e qualche personaggio ogni tanto, la Mietitrice non si ferma neppure davanti a donne ed anziani. Eppure, per quanto riguarda i personaggi principali, quelli che fanno la storia e che ci interessano, la loro morte non è mai buttata a caso, ma avviene nel duplice momento in cui il messaggio di quel personaggio viene definitivamente convogliato al protagonista ed arriva dunque il momento di uscire di scena: la morte è l’evento più adatto per sottolineare questo passaggio, questo oscurarsi delle luci sul palco. Da quel momento è decretato che i personaggi vivranno per sempre nella memoria del protagonista e del lettore. Prendiamo Shu, personaggio che in quanto a bontà e spirito di sacrificio fa sembrare Kenshiro un pivellino; Shu ci appare come un angelo, un uomo troppo buono perchè possa esistere, e proprio come un emissario celeste porta a termine il suo compito scomparendo dalla scena, morendo, ma catalizzando con poche parole e gesti quella che sarà la vera risoluzione per il protagonista. In Hokuto no Ken, più che in tanti altri manga, i personaggi appaiono e agiscono realmente per come sono, e rimanere fedeli alla loro essenza più pura li porta anche lontani dal sentiero che un normale essere umano sceglierebbe di percorrere, tutto in nome di qualcosa che viene chiamato destino, o dovere. Come dei samurai. Ecco, comincio a diventare emotivo.
Perchè con questo manga è impossibile non farsi prendere dalla nostalgia, soprattutto quando lo si ama parecchio. Non per questo voglio identificare il manga di Hokuto no Ken come l’unico in cui le emozioni hanno trovato veramente voce; il fatto è che, come dicevo, per trasmettere determinati messaggi è necessaria una certa capacità, che è personale e storicamente collocata, che può venire meno con gli anni perchè quello che le persone hanno da dire non può essere mai interminabile. Hokuto no Ken dura cinque anni perchè non sarebbe potuto durare di più, perchè il messaggio aveva trovato una sua forma, e continuare a “parlare” senza dire alcunchè di concreto lascia sempre il tempo che trova: è possibile, indubbiamente, ma non tutti sarebbero disposti a farlo, e non tutti i lettori sarebbero disposti a leggere un’opera che ha già consegnato il suo messaggio. Quindi Hokuto no Ken si eclissa nel 1988, esce dalla scena e continuerà a vivere nella memoria dei suoi lettori, dell’autore e in tutti quei manga spin-off di cui preferisco non occuparmi. Tuttavia, ancora prima di eclissarsi anche in questa serie di approfondimenti, Hokuto no Ken è quel manga che mi ricorda un’altra questione importante, che non potrà morire quest’oggi e che tornerà sicuramente al banco degli imputati con altri titoli: la questione delle incongruenze nella trama.
È mia impressione che oggi si sia molto più crudeli con gli autori manga riguardo ai loro sbagli di quanto non lo fossimo vent’anni fa. Nella seconda parte narrativa di Hokuto no Ken abbiamo dovuto assistere a un rimescolamento di carte che non erano chiare neppure dopo la prima parte, e mi riferisco alle origini di Raoh, Ken e Toki. È vero che con uno sforzo di immaginazione è possibile colmare il vuoto, ma mentre nella prima serie è chiaro che Ryuken accoglie Raoh e Toki come due orfani e poi Kenshiro (che compare un po’ a casaccio), nella seconda serie Buronson vorrebbe dirci che i tre ragazzini sarebbero stati inviati dall’isola degli Shura per essere addestrati all’arte dello Shinken, in quanto diretti discendenti della dinastia di Hokuto, e per giunta uno dei quattro fratelli viene anche rimosso dalla memoria! Io pensavo fossero dei trovatelli. In molti all’epoca abbiamo semplicemente fatto un cenno con la testa e accettato, forse in modo immaturo, questa contraddizione, mentre oggi trovo che nei lettori ci sia una maggiore riluttanza ad accettare errori anche minori, meno grossolani. La mia idea è molto semplice: poichè l’autore shonen moderno è portato a prestare maggiore attenzione alla trama, questa ha assunto maggiore importanza, perchè essa è diventata negli anni una delle lenti principali con cui le opere vengono analizzate. Laddove l’originalità è sempre più difficile da mettere in scena, si cerca di raccontare una bella storia. Anche se la trama è sempre stata importante, sembra tuttavia che si sia dimenticato che fondamentalmente lo shonen action è poco più di una lineare sequenza di eventi in cui un personaggio principale e alcuni compagni sconfiggono avversari via via più forti, avvicinandosi sempre più a un lieto finale aperto. Il problema delle incongruenze è tuttavia, allo stato attuale, irrisolvibile, proprio a causa di come vengono prodotti i manga: a differenza di altri ambiti della letteratura, in cui la consegna spesso avviene a prodotto terminato, l’autore lavora sul manga una settimana alla volta lottando incessantemente contro le scadenze, e l’omogeneità della trama è sicuramente uno dei prezzi da pagare per questo sistema.
E questo ci porta quindi al prossimo titolo, che a differenza dei due presentati quest’oggi non rappresenta un vicolo cieco, ma che in quanto a complessità di trama e relazioni fra i personaggi lascia alquanto a desiderare, nonostante resti comunque uno dei manga più divertenti di sempre, e quello che più di tutti ha influenzato lo shonen moderno. Reggetevi forte, arrivano il 1984 e Dragon Ball.
Querion 8 Dicembre 2013 il 16:26
Cavolo, questo approfondimento trasuda amore per il mezzo (e per Hokuto no Ken) da ogni singola frase.
Ottimo anche il commento su trama e critica, che ormai divide i lettori in spezzoni sempre pi� contrastanti.
ningen 8 Dicembre 2013 il 17:59
Articolo da leggere con in sottofondo qualche traccia di pertubator
Bell’approfondimento, come sempre del resto.
ichigo2 8 Dicembre 2013 il 19:58
Bell’articolone!
aras allenaz 8 Dicembre 2013 il 20:57
Questi articoli sono molto interessanti, faccio i miei pi� vivi complimenti allo scrittore. Grazie per la cura e la seriet� con cui portate avanti queste rubriche.
Sara.