Una cosa che mi ha sempre affascinato del mondo del fumetto, è che esso si presta ad essere spesso usato da altre “forme di cultura” come mezzo per veicolare in maniera più efficace il messaggio che queste ultime vogliono comunicare. Un esempio tipico è la pubblicità la quale, da ormai molti decenni, sfrutta non solo le tecniche di questa “arte” ma, spesso e volentieri, anche alcuni dei personaggi più famosi di questo mondo fatto di nuvole parlanti per lanciare messaggi, soprattutto a carattere sociale, in modo diretto e semplice. Da un po’ di anni, inoltre, è sempre più forte la presenza di tavole illustrate, spesso da “grandi nomi”, all’interno di romanzi e libri di vario genere, quasi a voler sottolineare che a volte una immagine riesce a conferire al messaggio incanalato dal testo scritto una forza maggiore, un “plus” che permette di “accompagnare e rafforzare” la potenza che le parole già di per sé riescono a generare quando si percorrono le righe della pagina di un libro.
L’evento tenutosi sabato 17 maggio, nella cornice del “Comicstore” di Giulio Laurenzi, a Potenza, appartiene esattamente a questa seconda tipologia. La presentazione del libro “Il Racconticida …e altre storie”, raccolta di racconti di Walter De Stradis, direttore editoriale della rivista “Controsenso”, è stata l’occasione per permettere che le due muse della storia “scritta” e di quella “disegnata” si potessero incontrare, favorendo così la nascita di un connubio unico e irripetibile che ha dato una spinta “in più” alla presentazione dei 14+1 racconti presenti in questo libriccino che si legge e gusta come una bibita fresca in una giornata estiva. Alla presenza dei disegnatori Rosario Raho, Saverio Cabese, Egidio Marone, Roberto Dramis e Giulio Laurenzi, che ha anche officiato la presentazione del libro, l’autore ha raccontato “fatti e misfatti” dietro la realizzazione di questa opera, mentre gli esperti delle “matite” si sono esibiti, ciascuno, in una performance creativa per dare vita a singoli personaggi presenti in questa raccolta di “istantanee di eventi riportate su carta, più che veri e propri racconti”, come li ha definiti lo stesso De Stradis, disegni che hanno conferito alla piacevole serata un ritmo e un accompagnamento alla discussione quanto una perfetta colonna sonora ben orchestrata riesce a fare con le scene di un film.
Il libro stesso di De Stradis sembra, per certi versi, un enorme affresco, una “tavola” simile a quelle che ai pittori rinascimentali venivano commissionate dalla Chiesa e da Mecenati di ogni sorta per rappresentare, attraverso immagini e figure, le scene, a volte grottesche e esasperate, di una realtà che ogni individuo, nel corso dell’esistenza, incontra e con la quale deve fare i conti, volente o nolente. 14 stralci di vita, 14 fotografie di fatti quotidiani che, sebbene mascherati dietro aspetti fantascientifici o “sovrannaturali”, permettono al lettore di identificarsi con i personaggi descritti o sentirsi, per lo meno, parte integrante del micro mondo che, di volta in volta, l’autore presenta, orchestrando storie le quali, più che basarsi sulla narrazione di un fatto, catturano chi legge attraverso la precisa, coerente, perfetta descrizione di una “scenografia” allestita in modo impeccabile, attraverso forme, luci, a volte suoni e anche odori, per quanto possa sembrare difficile credere che delle pagine scritte possano suggerire tali “effetti” sensoriali.
Leggendo le vicissitudini del “Racconticida” del titolo, un serial killer che ama “narrare” i fatti che lo vedono protagonista, del Diavolo affetto da gravi problemi intestinali, in cui mi è sembrato di scorgere – deformazione professionale – alcuni tratti simili al Magellan di One Piece, del giornalista Tank e del suo mondo iper-sponsorizzato, del venditore di panini “interstellare”, del Cristo di Maratea in viaggio planetario per arrivare “lì, dove nessun’altro è mai giunto prima” (cit.) e della piccola Shakiko e dell’arte dell’Ikebana, si ha la sensazione di sfogliare un album di fotografie, ciascuna posta a raccontare un momento della vita dell’autore, il quale ammette che in molti racconti c’è dell’autobiografico, o una semplice situazione di cui egli stesso è stato testimone, e delle quali racconta non tutta la vicenda, ma quella parte “fondamentale”, il succo della storia, se volete, che permette al lettore non solo di avere un’idea precisa di ciò che sta leggendo ma, anche, di riuscire a pescare, nella propria memoria, vicende analoghe (come nel racconto sul “Tagadà” o in quello già citato del venditore di panini) che fanno parte di un retaggio culturale e storico che accomuna, tra loro, gli esseri umani.
Una narrazione veloce, fatta di un scelta di termini semplice ma allo stesso tempo ricercato: De Stradis riesce perfettamente ad amalgamare tra loro termini di uso comune con altri più “complessi”, non certo appartenenti al vocabolario di tutti e che, tuttavia, riescono facilmente a descrivere, suggerire, far germogliare nell’immaginazione del lettore le immagini giuste, i colori appropriati, i giochi di luce perfetti che illuminano la scena in cui il racconto viene ambientato. E sin dalla prima pagina, sin dalla copertina, strana e quasi fuori luogo, per un simile libro, la narrazione la fa da padrona, tanto che il libro si chiude con una postfazione, il “racconto +1” di cui parlavo in precedenza, in cui, in maniera semplice e ironica, l’autore ci racconta, in una “didascalia che di per sé è una storia vera e propria”, le vicende legate all’autoritratto che campeggia sul frontespizio del suo libro e del modo bizzarro in cui lui stesso ne è entrato in possesso.
In questo quadro di “significati”, anche se l’autore si schernisce dicendo che “sinceramente, non è che mi sia messo lì a scrivere con l’intento di comunicare qualcosa o di voler insegnare”, si percepisce lo spirito di un uomo che appare dotato di una “sincerità fanciullesca”, quella tipica di un bambino che, vedendo un tizio calvo dal barbiere, non riesce a trattenersi dal chiedere, con tutta l’innocenza e il candore possibili, cosa ci faccia lui in quella bottega, visto che capelli non ne possiede: i racconti di De Stradis sono sinceri e schietti, privi di retorica e di quella “ipocrisia” tipica di chi cerca di “stupire con effetti speciali” quando mette nero su bianco, e in questo modo giungono direttamente al cuore di chi legge, portando un senso di pace nonostante, spesso e volentieri, l’ironia presente nella storia risulti un po’ “cupa”, proprio perché sincera e incentrata sul narrare vicende senza usare fronzoli o vorticose spirali descrittive per “addolcire il finale”.
Permettetemi di chiudere con una riflessione, o se preferite, una considerazione molto personale (so che non si fa, ma visto il tono del libro, mi pare la migliore chiosa possibile): ho letto il primo racconto della raccolta appena tornato a casa, circa le due del mattino, dopo essere stato a cena con alcuni degli “ospiti” presenti all’evento. Credo che leggere un racconto dal titolo “Il Diavolo sul cesso”, sulle vicende di questo “Satanasso” affetto da seri problemi intestinali che lo costringono, nottetempo, a dedicare una parte della sua vita ad espletare funzioni fisiologiche che lo distolgono dal dormire beatamente, ripercorrendo, per certi versi, le sue stesse “attività”, stando seduto per qualche minuto sulla “tazza” prima di andare a godersi il meritato riposo di una lunga giornata, sia perfettamente in sintonia con il senso di “realtà” di cui parlavo prima e che pervade tutto il libro, tanto che, alla fine della lettura di queste quasi sei pagine non ho potuto fare a meno di sorridere compiaciuto e divertito dall’analogia, quasi comica, in cui mi ero ritrovato. E credo che una cosa simile sia fondamentale, per definire un racconto un “buon racconto”.